Io ho tre figli quindi sono un babbo o papà, come si dice in altri parti d’Italia. Oggi nei social “fioriscono” foto di babbi in ogni dove, comunque vestiti, sorridenti.
Le più belle e affascinanti sono in bianco e nero, un po’ sfuocate, spesso mosse. Devo confessarlo quei babbi “antichi” come il mio erano molto più belli, più eroici. Non è invidia di babbo, è pura constatazione.
Penso al mio di babbo e cosa vedo? Vedo un padre di ben quattro figli, un uomo imperfetto come me, con i suoi difetti piccoli e grandi. Ma la visione che ritorna oggi vuole essere un’altra, quella di me bambino, la più bella.
Quando si racconta di questi babbi quella narrazione si fa storia, quasi leggenda. Il ricordo corre sulle ali della memoria ed è bello raccontare del lavoro del babbo eroe.
Ferriera, già il termine evoca, fumo, calore, lotte operaie. Si il mio babbo lavorava in Ferriera con la F maiuscola. Tute spesse, scarpe grosse, occhiali di protezione contro le schegge infuocate e cappello con la tesa e la banda di dietro come un esploratore del deserto, come Peter o’Toole nel film Lawrence d’Arabia. Io lo vedo così, proprio come in quel film, come un eroe. Gli portavo il “paniere” con il mangiare quando era di turno diurno. Avevo forse 10 o 12 anni e la mamma mi mandava verso le sei del pomeriggio alla Ferriera.
Accanto al cancello principale, c’era una porta che dava in una piccola stanza con un bancone e una panca, tutto in ferro naturalmente. Io mi sedevo con il mio paniere in collo e dondolavo le gambe in attesa di vederlo. Dalla porta interna s’intravedeva la fabbrica. In lontananza si vedevano pezzi di ferro incandescenti, lingue di fuoco, rumori metallici mostruosi, soffi e vapori. Poi la sua figura emergeva da questo inferno. Passi lunghi, lenti, pesanti, stanchi. Mi sembrava altissimo, un gigante, forte, fortissimo. Entrava nella stanza dove l’attendevo. Sorrideva e in quel viso nero, sporco e sudato si accendevano gli occhi e i denti bianchi.
Mi tirava sopra al banco, mi diceva qualcosa, poi mi dava un bacino sulla guancia e poi, di peso, mi rimetteva giù, prendeva il paniere e si incamminava ritornando verso i ferri incandescenti e i vapori che lo attendevano. Io aspettavo ancora nella stanza e lo guardavo di spalle. Lui lo sapeva, prima di sparire si voltava da lontano e alzava il braccio per salutarmi. Ciao babbo gli urlavo.
Ero cosciente che il rumore delle Ferriera non avrebbe portato laggiù il mio saluto come oggi so che il ciao che gli urlo nella mia testa si perderà nel vento dei ricordi. Ma come allora lui, da qualche parte si volterà, alzerà la mano e mi saluterà, mentre io mi accarezzerò la guancia dove quel bacio mi aveva lasciato il nero e il sudore del suo lavoro da eroe.