Lo vidi spuntare dall’angolo. Camminava rasente il muro e ogni tanto si voltava indietro con sospetto, forse anche paura. Nel girarsi faceva quello strano gesto con la punta del dito, si aggiustava gli occhiali e nel contempo arricciava il naso.
Aveva la barba lunga. La giacca sgualcita, di traverso, copriva una camicia da troppo tempo indossata. Lo si vedeva dal bordo sudicio del colletto aperto, malamente tenuto da un nodo di cravatta striminzita. I pantaloni, anch’essi sgualciti, erano larghi tenuti da una cintura molto più grande del punto vita. Una delle scarpe, desiderose di un’antica lustrata, era senza lacci e con la suola leggermente staccata. “Tó Ninelli” gli feci quando fu vicino. Lo feci sobbalzare, non si aspettava, o forse non voleva, essere riconosciuto. “Quanto tempo” continuai “ma come si è ridotto, cosa è successo?”. Lui mi guardó con più attenzione aggiustandosi ancora gli occhiali e finalmente riconobbe in me il giornalista che lo aveva intervistato tanto tempo fa. “Ancora” mi rispose indispettito “non vi è bastato distruggermi come ministro, ancora mi seguite, mi volete morto!” Lo guardai è provai quasi pietà “No, passavo qui per caso” risposi “posso offrirle qualcosa”. Mi guardò con occhi imploranti”grazie un cappuccino” e sussuró “sono tre giorni che non mangio”. Andammo a un bar lì vicino, presi un cappuccino ed anche tre paste che lui tranguigió in un attimo. “Non creda che parli ancora” iniziò alzando la voce impastata di cibo “basta, ho già detto tutto” continuó senza che chiedessi niente “io avevo ragione” il tono cresceva rabbioso “ho sempre avuto ragione, è stato un complotto dei poteri forti, di voi giornalisti a distruggere tutto il nostro programma, le cose che avevo previsto” una vena sulla fronte gli si gonfiò “maledetti è colpa vostra” e fece come un sogghigno puntandomi l’indice al viso “ma io vengo qui ogni giorno, guardo, osservo e controllo se qualcuno mi sta rubando le idee di allora e non lo permetteró”. Detto fatto si alzò, continuó a borbottare parlando da solo, poi scuotendo la testa e gesticolando mi lasció lì. Mi alzai dal tavolino all’aperto dove avevamo preso la consumazione, il cameriere si avvicinó e mi porse lo scontrino. Settecentocinquantamila lire; pagai senza lasciare mancia, non me lo potevo permettere. Alzandomi mi colse il maestrale che dal mare risaliva la strada. Rabbrividii e mi chiusi il giubbotto ed istintivamente il colletto. Nel farlo alzai gli occhi, su verso il troncone del ponte caduto ormai da anni. L’edera avviluppata sulle travi e i rovi che si allungavano verso il vuoto, fluttuavano mossi dal vento donando alla tragica costruzione un senso leggiadro, quasi un ballo macabro. Mi allontanai piano piano, voltandomi vidi per l’ultima volta Ninelli e mi sembrò un ombra che fuggiva tra i muri delle vecchie case disabitate.