di Nedo da Terranuova detto di “Il Bronzaccio”
Comincia il libro chiamato DECOVIDON, nel quale si contengono sette novelle raccontate da quattro ragazze e tre giovani uomini.
Quanto tempo è passato da allora. Dovete sapere che in quell’anno assai strano, bisesto e ricco di date palindrome, del 2020 il mondo intero fu colpito da un morbo allora sconosciuto. Un virus pestilenziale che obbligò tutti, onde evitare infezione e morte, a contenere i propri comportamenti. Il male colpì in ispecie i vecchi, proprio come me, come se il destino volesse salvare per il futuro le nuove generazioni.
La Terra si scoprì fragile e indifesa, la paura, l’incertezza e la malinconia avvolsero la gente. Venne disposto, per tentare di arginare il male, di isolarsi in quarantena per qualche tempo.
Ormai giunto agli ultimi anni della mia vita, voglio serbar memoria a tutti voi, ché la speranza e la fiducia sono assai importanti nell’esistenza. La testimonianza di ciò sta nei fatti che durante quell’evento, una brigata allegra fatta di quattro donne e tre giovanotti, ebbe a ingegnare. Per sfuggire ad ogni tristezza e per consolazione essi si unirono per trascorrere insieme una settimana lontani da tutti e da ogni contatto con la malattia.
Si rifugiarono in campagna, sopra alle colline del piccolo paese valdarnese di Terranuova, nella tenuta di Montelungo. Accadde che in quei giorni, per l’assenza di tecnici e di lavoratori, non funzionassero né la televisione né Internet né alcuno collegamento.
Allora, per combattere la noia, uno alla volta gli allegri giovani, inventarono delle novelle. Una per ciascheduno dei giorni della settimana
Sono storie di sollazzo, favole, argute o licenziose, ricche di toscanità e amore, racconti che vado a riportare acciocchè non vadano perdute per sempre nella memoria nostalgica di un vecchio innamorato della vita.
GIORNO DI LUNEDI’
“Di come dei ragazzi nel pieno dell’esplosione degli ormoni della gioventù si ingegnano per placare i propri bollori”
Si sa nei paesi piccoli non è facile per i ragazzi avere la possibilità di iniziarsi al sesso. Figuriamoci nelle piccole frazioni dove tutti si conoscono ma non fino al punto di sapere se si è predisposti per le prime esperienze amorose.
Gigi di Sacco e Mario di Rigli della Cicogna, erano due diciotteni un pò brufolosi e pieni di voglie, che quando conoscevano delle ragazze e arrivavano al dunque, ricevevano sempre un due di picche e a volte anche un bello schiaffone.
Un giorno a Mario venne un’idea. “Andremo in chiesa” disse con il sorrisetto a Gigino che rimase meravigliato e senza parole.
Si misero vicino al confessionale finchè non arrivò padre Ernesto, il prete della Cicogna.
“Chi si vole confessare?” domandò il prete, “Io” disse Mario entrando in confessionale.
“Dimmi Mariolino, oicchè t’ha fatto?” chiese padre Ernesto dopo il segno della croce.
“Oh padre ho peccato in lussuria, e so andato con una ragazza, una di quelle che lei conosce, di quelle che la danno facile”
“Porca miseria Mario, per penitenza reciterai 30 Ave Maria e 30 Paternostro, però mi devi dire con chi sei stato, devo redimere anche quell’anima smarrita”
Mario – “O Padre ma come posso, non lo dirò mai”
Padre Ernesto – “Ma chi era, Maria di’Mecchi?”
Mario – “No padre sarò una tomba”
Padre Ernesto – “Allora Gina di’Rocchino?
Mario -“ma come posso, mi sentirei un traditore”
Padre Ernesto – “Serena di’Romoli?”
Mario – “no, non parlerò”
Padre Ernesto – “Annina di’Riccardi”
Mario – “Sarò muto come un pesce”
Padre Ernesto – “Ho capito Carla della Marisa”
Mario – “mi spiace ma la mia bocca resterà chiusa”
“va bene disse” Padre Ernesto “lo scoprirò da solo, ego ti absolvo”
Mario si fece il segno della croce e si avvicinò a Gigino, rimasto nelle prime panche della chiesa, che gli domandò curioso “allora icchè tu hai fatto”
“L’è andata benissimo ora ci s’ha cinque nomi, su quelle si va su i’sicuro”
GIORNO DEL MARTEDI’
“Di quel che successe nella bottega della Signora Fiorenza nei giorni del Perdono.”
Nel vivace paese di Terranuova, la quarta domenica del mese di Settembre, si tiene da più di quattrocento anni una grande fiera.
Viene chiamata Perdono, come anche in molti altri luoghi del Valdarno, ma in verità bello e grandioso come quello di Terranuova non ve n’è.
Per questi giorni, Terranuova si veste a festa, piena di banchi di ogni genere di merce. Da ogni parte vengono i commercianti, molti sono i luoghi per mangiare le prelibatezze toscane e dell’Italia tutta.
Unica è la fiera degli animali e degli uccelli da richiamo, con la gara fra persona capaci di imitare perfettamente il canto degli uccelli. Giostre fantastiche allietano piccoli e grandi, una ricca tombola viene “tirata” il lunedì,mentre dei fantasmagorici fuochi d’artificio concludono la quattro giorni.
I negozianti Terranuovesi si sentono particolarmente investiti e fanno a gara a chi fa la bottega più bella.
Nel bel centro della via principale, la Via Roma, la signora Fiorenza gestisce da tanti anni un fornito negozio di alimentari.
Famosa per la sua tirchiaggine, la Fiorenza non fa sconti a nessuno. Fa pagare tutti fino all’ultimo centesimo e nei salumi pesa anche il piombino di chiusura degli insaccati.
Durante il Perdono mette in bella mostra gli alimenti più belli. La porchetta è sempre presente, anche se nei panini, peraltro buonissimi, fa pagare a peso anche l’incarto.
Accadde all’ultimo Perdono, che ci fosse davanti all’entrata della bottega della signora Fiorenza, un grande catino con un bel baccalà a bagno pronto per essere venduto.
Tutti i passanti si soffermavano e facevano i complimenti alla padrona per il baccalà e lei, seduta accanto alla porta per sorvegliare la mercanzia, sventolandosi con un foglio giallo e il vecchio grembiule legato intorno alla vita, si inorgogliva per quei salamelecchi.
Proprio mentre parlava con dei conoscenti, passò un vecchio cane barbone. Con un gesto fulmineo afferrò il baccalà dal catino e scappò via.
La Fiorenza non perse tempo e cominciò a rincorrerlo: “fermatelo, al ladro, figlio d’un cane”. La gente si girava e cercava di scansare la donnona, anche perchè l’impatto sarebbe stato devastante. Più il cane correva più la Fiorenza gridava e gli era dietro. Nel correre cozzò contro i banco dei dolci, buttando in terra brigidini e croccanti; rovesciò quello delle camicie facendole volare per l’aria e staccò un gruppo di palloncini che volarono in alto. Tutta la via fu messa a soqquadro finché finalmente il cane ormai stanco e con la Beppa alle costole, lasciò la presa e il baccalà finì in terra tra i piedi della gente.
La signore Fiorenza, biascicando tra sé e maledicendo la povera bestia riprese il baccalà, tutta rossa, sudata e arruffata. Tornò con la preda alla bottega e fra le risate del pubblico che si era raggruppato davanti alla negozio, rimise con tranquillità il baccalà a mollo e si rimise a sventolarsi come se nulla fosse accaduto.
GIORNATA DEL MERCOLEDI’
“Di come le spose pentite cercarono di confessare all’Arciprete di aver fatto i propri mariti becchi.”
E’ noto che, con la crisi del lavoro, quasi sempre sono le donne ingiustamente ad essere svantaggiate.
Le giovani e belle donne, spose o fidanzate si trovano, specialmente nei piccoli paesi e frazioncine a passare tutto il giorno da sole.
La sera i mariti e fidanzati, tornano tardissimo, sfiniti dalle fatiche quotidiane e da ore di treno e macchina. Si addormentano presto davanti al televisore e vanno a letto preoccupati dall’ora presta a cui si dovranno alzare.
Le Esigenze carnali della giovane età spesso non vengono appagate dai rispettivi consorti e finisce che le donne cedano al richiamo dei loro corpi concedendosi ad amanti fissi o saltuari, facendo così “becchi” gli ignari partner.
In effetti però di questo si dolgono assai le donne e grande è il dispiacere, perchè l’amore per il proprio uomo in realtà è acceso nel cuore.
Le rode e le tormenta il pentimento per le malefatte tantoché esse si rivolgono al prete confessando tutto il sabato per poi, la domenica, essere mondate per il proprio compare.
Successe che il sabato ci fosse la fila davanti al confessionale nella piccola chiesa nel centro del paese.
Il parroco del paese era un certo Don Dino della Traiana, da anni Arciprete di Terranuova conosceva tutte le donne del paese e luoghi limitrofi, per aver fatto loro dottrina, comunione e ad alcune lo sposalizio.
Tutte entravano in confessionale si facevano il segno della croce e iniziavano con la stessa storia: ”oh padre ci sò ricascata e ho tradito i’mi marito”. A quell’ora nella chiesa c’era sempre il vecchio sacrestano tale Nello di’Renzi dalla Treggiaia. Spazzava e puliva la chiesa per le funzioni della domenica. Nel passare i’cencio vicino al confessionale ogni tanto diceva – “si senteee”- e continuava a fare il suo lavoro.
Don Dino s’affacciava, lo guardava con faccia interrogativa e tornava a parlare con la donna “Mara, Mara… 80 Avemaria e 10 candele a San Donato”
Arrivò la seconda – “Oh Don Dino e so stata a letto con l’idraulico” – e un pò più in là il sacrestano ripeteva – “e si senteee!”
Il prete imperterrito continuava – “Rina, Rina… 90 Avemaria e 15 candele a San Donato.
Anche la terza confessò il tradimento e Nello ancora – “si senteee!”
A quel punto l’Arciprete irritato da quelle interruzioni disse alle donne – “scusatemi torno subito”.
Prese sottobraccio il sacrestano lo portò in sacrestia e un po’ scocciato gli domandò – “Allora Nello me lo dici perché tu dici sempre quella frase?”
“Oh Dino” – rispose il sacrestano -“e si sente tutto, la chiesa l’è piccina e rimbomba tutto e la confessione dei tradimenti potrebbe essere ascoltata anche da fuori”
“Ohh per San Tito, ci mancava anche questa” – disse il prete mettendo le mani giunte e occhi al cielo – “devo fare qualcosa”.
Andò di là, riunì sulle prime panche tutte le donne e parlò – “Bimbe mie bisogna che si inventi una frase diversa, che non dia sospetti altrimenti si rischia che la confessione da privata e la diventi pubblica e sarebbero guai di nulla. Allora da qui in avanti mi direte che siete “inciampate” per strada o in un marciapiede, insomma da qualche parte”
A tutte sembrò una cosa giusta e così i sabati di confessione andarono avanti tra inciampate e penitenze.
Nello, il sacrestano, intimo amico del Sindaco, passa un sabato e passa un altro, non potè tenere questo segreto così piccante e lo raccontò al primo cittadino che rise di gran gusto.
Ora accadde che, qualche mese dopo, improvvisamente l’Arciprete fosse promosso a Monsignore e mandato dalla mattina alla sera nel capoluogo di provincia.
Il nuovo parroco, che veniva da Troghi, iniziò la sua attività e durante la confessione apprese di tutti quegli strani inciampi delle donne che ignare, pensarono bene di non cambiare abitudine. Il prete, non sapendo bene cosa fare, dopo aver domandato se le signore nel cadere avessero bestemmiato, non trovava di meglio che assolverle con un’Ave Maria e mandarle a casa.
Però preoccupato una mattina chiese udienza al Sindaco che l’accolse volentieri.
“Sindaco, guardi che qui la cosa è seria, le strade e i marciapiedi del paese e devono essere parecchio pericolose, c’è una marea di donne del luogo che inciampano spesso e lei rischia parecchio”
Il Sindaco, che conosceva tutto l’antefatto, a quella dichiarazione non potè trattenersi dal ridere davanti al parroco.
Il nuovo prete del paese, quasi offeso allora si alzò e indispettito per quella mancanza di rispetto, disse al Sindaco “La rida, la rida parecchio la su’moglie la scorsa settimana e l’è inciampata tre volte”.
GIORNATA DEL GIOVEDI’
“Di come nacque la leggenda del furbo mezzadro che riuscì a comprare il podere di’Querciolo senza sborsare un centesimo.”
Proprio sopra a Terranuova c’è una collina chiamata “Il Poggio dell’Orlandi”.
Lì ci sono dei bei poderi con campi fertili.
Ci viveva Rino di’Zeppolo, un contadino che aveva un bel campo proprio in quel luogo. Rino era conosciuto come una persona avarissima, furbo e scaltro, non aveva frequentato la scuola ma sapeva bene fare i conti in maniera che tornassero sempre a suo favore. Come si dice “scarpe grosse e cervello fino”, nessuno sarebbe riuscito a fregarlo.
Accanto al campo di Rino c’era un podere chiamato “Il Querciolo” proprio per il boschetto che ci stava in mezzo.
A Rino il campo del Querciolo avrebbe fatto veramente comodo perchè poteva ingrandirsi e aumentare i suoi raccolti.
Non riusciva mai, però, a vedere il padrone o un contadino a lavorare o seminare.
Di fatto la mattina presto al sorgere del sole, quando Rino iniziava la sua giornata di lavoro con l’aratro e la zappa, il campo di là era belle che arato e governato, come se ci fosse stato un incanto.
Finalmente una bella mattina di Maggio capitò che nel mezzo del Podere ci fosse un uomo con la vanga in mano. Rino non si fece sfuggire l’occasione e si avvicinò.
“Buongiorno, l’é tanto che volevo parlare con lei”. L’uomo non rispose e sdegnosamente rimaneva di spalle e un cappellaccio in testa.
Rino non si sdette e continuò – “la mi stia a sentire o che lo venderebbe questo campo e mi garberebbe parecchio. Sa…e mi vorrei allargare e se non le facesse scomodo, ma chissà quanto vuole?”
L’uomo si voltò, si tolse il cappello e rivelò le corna e gli occhi rossi. Era proprio il diavolo e così a Rino si spiegava la magia del campo. “Certo che lo cedo” – disse il diavolo – “e non voglio neanche un centesimo. Siccome te non puoi fare a meno di tutte le cose che coltivi, ti priverai di metà sia di quello che nascerà nel mio campo ma anche di quello che crescerà nel tuo, se riuscirai a sopravvivere lo stesso ti darò il campo se non ci riuscirai mi darai l’anima”.
Rino, per niente impaurito, ci pensò su e disse – “Va bene, facciamo così, per il tuo campo ti darò tutte le cose che cresceranno sopra la terra e io terrò quelle sotto mentre per il mio sarà l’inverso, così tutto sarà metà esatta.” Il diavolo, certo che il contadino non ce l’avrebbe fatta, gli dette la mano e se ne andò.
Rino allora seminò nel campo di
Mefistofele le rape e nel suo il granturco.
Passato il tempo dovuto, dalla salita del Poggio dell’Orlandi si presentò il diavolo.
“Ecco” gli disse Rino – “Queste sono le cose che ti spettano: le foglie delle rape che son cresciute sopra al tuo campo e le radici del granoturco coltivato nel mio. A me le rape e le pannocchie, io l’accordo l’ho rispettato”.
Il diavolo comprese di essere stato fregato e diventò così rosso di rabbia da incendiare il cappello e tra sbuffi e zolfo sparì, sprofondando proprio in mezzo al campo del Querciolo. Il contadino allora si impossessò del podere del Querciolo e da lì nacque la leggenda di Rino di’Zeppolo che gabbò il Demonio.
GIORNATA DEL VENERDI’
“Di come un frate del Tasso non si fece ingannare dal contadino che si credeva furbo”
Al Tasso, piccola Frazione del comune di Terranuova, c’era una Frate di nome Checco a cui piaceva allevare polli, conigli e piccioni.
Fra’ Checco in effetti aveva i più bei esemplari della zona. Nei giorni della festa del Perdono portava sempre i galletti più belli alla mostra degli animali vincendo molti premi.
Un contadino di Montemarciano andò un giorno trovarlo. Era Enea di’Botta, un taccagno che faceva sempre tutto a suo favore, trattava male e cercava sempre di fregare il prossimo.
Enea disse al Frate – “Oh Checco ma che me lo vendi un gallo che ho bisogno di far fare un po’ d’ova alle mi galline?”
“Si può vedere” – rispose il Frate – “ma guarda che un’costano poco”
“O quanto tu voi?” – domandò spavaldo Enea.
“Guarda, come minimo ci vogliono cento euro” – gli rispose il frate.
Enea ci rimase male, stette zitto rimuginando un minuto e poi rispose – “Bene torno domani e ti porto i soldi”
Il giorno dopo ritornò e con sorrisetto furbo disse: –
“Fra’ Checco, accidenti a te, ecco due pezzi da cinquanta e dammi un bell’esemplare”
Il Frate prese i soldi, li contò e andò nel pollaio. Tornò con un bell’animale grosso e candido.
“Tieni, trattalo bene mi raccomando”
Enea lo salutò prese l’animale, tornò a Montemarciano e lo mise nel suo pollaio.
Dopo qualche settimana però’ ritornò al Tasso da Frate Checco. Aveva il bell’animale sottobraccio e il volto adombrato si rivolse al frate protestando: –
“Oh Checco ma icché tu m’ha dato, le mi’ galline un’ fanno neanche un ovo”
Fra’ Checco lo guardò mettendo le mani sui fianchi – “Oh Enea, ma chi credevi di imbrogliare? Te tu m’ha dato du’pezzi falsi e io t’ho dato un galletto falso e siamo pari”
Enea tutto rosso per la vergogna restituì la bella gallina e se ne andò per non tornare più.
GIORNATA DEL SABATO
“Di quando si decise di costruire i gabinetti pubblici con le lapidi del cimitero”
Accadde che la giunta Comunale decidesse, finalmente, di risolvere un problema annoso che esisteva nel paese.
Sia i rappresentanti della maggioranza che dell’opposizione erano stati sollecitati dai cittadini alla costruzione di un vespasiano nel centro della città. Si insomma, un pisciatoio.
Davanti all’edicola di piazza c’era sempre un gruppo di pensionati a discutere di tutto: del tempo, della politica, delle donne, dello sport.
Quando invece fervevano dei lavori pubblici si riunivano intorno al cantiere. Attenti osservatori dell’andamento delle ristrutturazioni non mancavano di dare consigli e rettifiche ai poveri operai, criticando quasi sempre il compimento delle opere.
Nel trascorrere però quelle ore di ozio, dato l’avanzare dell’età, la loro prostata non era esente da qualche problema e l’impellente necessità di svuotare la vescica non poteva che essere soddisfatta nei vari bar vicini.
Gli inconvenienti erano molti: il primo per loro perché a furia di prendere caffè gli si alzava la pressione; il secondo era che i proprietari dei bar finivano alla fine per avere la fila al gabinetto e gli toccasse in continuazione pulire la mancanza di “mira” dei vecchietti che, data l’età e spesso una bella pancia, mal riuscivano a gestire “l’attrezzo”.
Fu da qui che il punto del gabinetto divenne una richiesta “elettorale” portatrice dei molti voti dei pensionati interessati.
Venne quindi espropriato un vecchio fondo inutilizzato da tempo, vicino alla chiesa del paese e i lavori iniziarono.
Successe però che tirate le somme necessarie alla costruzione, il Ragioniere del Comune si recasse da Sindaco e sentenziasse – “Mi spiace Sindaco ma i soldi per questo lavoro non erano stati previsti nel bilancio e di fondi ne rimangono ben pochi”
Il Sindaco, che aveva promesso di fare quell’ intervento proprio per essere rieletto, convocò l’assessore ai lavori pubblici – “Oh Maurino” – gli disse – “ tu mi devi trovare i’vverso di fare questo pisciatoio e spendere poco”.
“Ma come si fa?” – gli replicò disperato l’assessore – “risolvi il problema, o che t’ho fatto assessore a fare!”
Maurino delle Ville incomincò a rimuginare e pensa che ti ripensa, gli venne la soluzione in mente.
In quei giorni, dal cimitero di Castiglion Ubertini frazione di Terranuova, si stavano togliendo delle antiche tombe. Erano tombe lasciate a se stesse, non più curate nè reclamate da alcuno. Lapidi storte e mezze interrate da decenni. L’assessore ordinò di non gettare i marmi che altrimenti sarebbero finiti in discarica.
Avrebbe riutilizzato le lapidi rovesciandole, per farle divenire orinatoi pubblici e così la spesa sarebbe stata praticamente azzerata.
Siccome bisognava risparmiare, il lavoro fu affidato a un solo operaio, tale Fosco di’Manetti, celebre per la sua miopia che in qualche maniera, un po’ con gli occhiali spessi un po’ senza, riuscì a concludere la costruzione.
Venne il giorno dell’inaugurazione. Con tanto di banda, nastro e fascia tricolore il Sindaco fece un bel discorso davanti alla cittadinanza e proprio i pensionati in prima fila.
Gino di’Tanfoni, ottacinquenne arzillo a quel punto si fece avanti e disse – “scusate ma io ho necessità e voglio essere i’pprimo”. Detto fatto entrò nella stanza si sbottonò i pantaloni, iniziò la “funzione” con il volto rilassato e calando gli occhi sul marmo dove l’agognato zampillo finiva rimase di stucco.
A grandi lettere incise si leggeva “Finisce, come uccello che al fin non s’alza più. Spargete dunque lacrime di dolore”
“Vai!” disse Gino ad alta voce “M’hanno riconosciuto anche qui”.
GIORNATA DELLA DOMENICA
“Di quella volta che una coppia in calo di desiderio fece di tutto per riaccendere la passione”
Giacomo e Stefania erano una coppia che si amava da tempo. Si volevano bene e avevano due splendidi figli. Si erano sposati più di venti anni prima e trascorrevano una vita tranquilla, semplice e senza scossoni. Forse troppo tranquilla, tanto che da qualche tempo, il loro rapporto stava divenendo una routine. Stefania non aveva coraggio di parlarne ma la noia regnava spesso nelle loro serate.
Per non parlare delle notti. L’amore,in realtà, c’era, ma fisicamente le cose erano da molti mesi assai diverse. Il sesso, insomma, era divenuto una cosa rara. Pochissime volte in un mese, una o due al massimo, e quelle volte che accadeva, per tutti e due era un’esperienza veloce e priva di soddisfazione. Facevano l’amore più per dovere e la cosa stava divenendo sempre più pesante, tanto da iniziare a incrinare la loro relazione.
Stefania in verità era ancora molto bella e desiderabile e anche Giacomo era un bell’uomo, prestante. Ma la scintilla che faceva accendere le loro serate sembrava che si fosse spenta.
Eppure la loro passione era stata vulcanica, anni prima facevano l’amore dappertutto. Ma ora tutto era cambiato.
Giacomo diventava ogni giorno più triste e scostante, Stefania era quella che ne soffriva di più e qualche volta di nascosto ne piangeva.
Stefania decise che il loro matrimonio non poteva naufragare così e decise di fare qualcosa.
Si ricordò di Maria, la sua amica del cuore, alla quale un tempo confidava tutto. Maria era una donna che aveva girato il mondo, aveva avuto molti uomini e sicuramente l’avrebbe consigliata.
Le telefonò e le disse che aveva bisogno di lei.
Maria fu felicissima di risentire l’amica e curiosissima accettò di incontrarla.
Si incontrarono a Firenze, si abbracciarono e iniziarono a raccontarsi delle loro vite, finchè non si arrivò al punto cruciale. Con lo sguardo abbassato e un pò di vergogna Stefania riuscì a narrare l suo cruccio, in tutti i particolari, di come prima faceva l’amore con il marito e di come lo faceva oggi. Si sfogò e pianse molto abbracciando l’amica.
Maria la consolò e le disse: “Stefania il vostro amore ha raggiunto il punto in cui conoscete tutto di voi, non avete più stimoli audaci, insomma, piccanti che risveglino il desiderio. Dovete trovare nuovi spunti, fare qualcosa di nuovo, guarda io te lo dico con sincerità, cercate qualche coppia, vincete la vergogna e fate del sesso con loro. Vedrai che funziona”
Stefania non credeva ai propri orecchi, le rispose che non sarebbe mai riuscita a farlo, ma che la ringraziava lo stesso.
Tornò a casa, rassegnata a quella vita e continuò i giorni come prima. Le cose però peggiorarono al punto che una sera affrontò il problema con Giacomo. “Così non possiamo andare avanti, finiremo per lasciarci” disse alla fine Stefania -“Hai ragione” – ammise il marito “ma che potremmo fare? Io per salvare il nostro amore sono disposto a tutto.”
A quel punto Stefania raccontò a Giacomo quello che le aveva suggerito l’amica. L’uomo restò perplesso e disse che non era una cosa da fare, però ci avrebbe pensato. Passò ancora un po’ di tempo e una sera i due si guardarono negli occhi e insieme dissero: “facciamolo!”.
Con tanta vergogna e l’aiuto di internet trovarono un sito che pubblicizzava in bella vista proprio quella cosa. Presero il coraggio a quattro mani e si recarono dove si sarebbe svolto l’incontro con altra gente.
C’erano delle regole particolari, avrebbero dovuto indossare una maschera sul volto e tutto si doveva svolgere in una penombra intensa, in modo da non svelare l’identità di chi si aveva davanti.
La serata iniziò incerta, c’erano in effetti molte coppie e qualche bicchiere incoraggiante, le persone cominciarono ad avvicinarsi e con la scusa di un ballo i due coniugi si separarono.
La musica divenne inebriante e, con i liquori bevuti, molto di più lo divenne la situazione. I balli cambiavano in continuazione con essi i partner. Giacomo si trovò abbracciato a donne molto belle sempre più svestite, mentre Stefania passò da un ballerino ad un altro i cui gesti divennero sempre più audaci e si trovò ad un tratto con la sola biancheria intima e la maschera. In effetti l’eccitazione era alle stelle. Tutti e due stavano rivivendo le cose che provavano tanti anni fa. Le coppie iniziarono ad appartarsi e a fare l’amore. Anche Stefania e Giacomo alla fine si trovarono con uomo e una donna molto eccitati. Furono rapporti intensi, appaganti, lussuriosi, con persone che la maschere e l’oscurità celavano alla loro vista. Alla fine rimasero sfiniti ma la voglia era di cercarsi per raccontarsi quello che era accaduto. Stefania fu presa per mano dal suo uomo, ugualmente Giacomo dalla propria donna. Con quegli amanti di una sera entrarono nei bagni per darsi una rinfrescata. Alla luce vivida degli specchi i due ebbero un pò di vergogna, lei in lingerie sexy, lui con gli slip nuovi comprati con Stefania per l’occasione.
Fu Stefania vedendo quelle mutande e riconoscendole esclamò – “Giacomo” – quasi urlando. L’uomo si tolse la maschera e con un gesto veloce la tolse anche alla bella donna che aveva davanti e con cui aveva fatto quell’amore folle. Era proprio di Stefania quel bellissimo corpo, ancora caldo dell’amore di prima. Gira e rigira, avevano finito di fare del sesso proprio fra di loro. Iniziarono a ridere e si abbracciarono e si baciarono a lungo. Compresero quindi che l’Amore c’era e c’era anche il desiderio, capirono che era una questione di testa perchè loro si piacevano e ancora erano in grado di provare una grande passione.
Ripresero la macchina e nella notte tornarono verso casa, ridendo e raccontandosi la serata. C’è chi dice che si siano fermati più volte per la strada e come da giovanissimi fidanzati si siano amati in macchina, di un amore travolgente.