Allora i banchi a scuola erano di legno con il ripiano leggermente inclinato. Si scriveva con l’inchiostro e i pennini che si intingevano in un calamaio di vetro. Che guaio per un mancino come me, mi macchiavo sempre la mano e la manica del grembiule.
Si aspettavano con gioia le vacanze di Natale. Salutavamo il maestro, i bidelli, i muri della scuola. Che la guerra fosse una cosa ancora tragicamente viva lo si vedeva proprio su quei muri dove erano appesi dei manifesti raffiguranti bambini senza mani o braccia e le raccomandazioni di non raccogliere quello che di strano si poteva trovare in terra perché potevano essere ordigni inesplosi. In casa si faceva l’albero di Natale che era un abete vero, con tanto di radici.
Le palle erano di vetro fragilissimo come il punteruolo. Intorno ghirlande argentee e le luci erano collegate a una presa magica: l’intermittenza.
In verità Babbo Natale non aveva tutta quella importanza di oggi, invece era la Befana che contava.
La Befana, vecchietta arzilla, sdentata, con lo scialle di lana e la “pezzola” in testa, viaggiava a cavallo di una scopa e portava dei regali ai bambini che erano stati buoni, altrimenti agli altri carbone.
La mia famiglia era numerosa e povera. Si stava al caldo solo in cucina, dove c’era la stufa a legna, di quelle bianche, con quattro sportelli. Sopra aveva i cerchi concentrici e di lato c’era un contenitore dove si metteva l’acqua.
Alla vigilia della Befana mio Babbo ad un tratto diceva: “ma cosa è passato dalla finestra? Mi è sembrato di vedere qualcuno che volava”. Io correvo al vetro della finestra di cucina e con il naso appiccicato al vetro lo appannavo tutto. Proprio in quel momento si sentiva un rumore di qualcosa che cadeva dalla cappa della cucina. Come batteva il cuore nel voltarsi e scoprire una manciata di caramelle apparse dal nulla. “Hai visto, la Befana ha fatto una passata per vedere se eravate ancora svegli, chissà se stanotte tornerà?”.
Si metteva allora una sedia vicino alla stufa con sopra un mandarino o un’arancia, qualche biscotto, un bicchiere di latte e si andava a letto.
Le camere erano fredde ma nel letto c’era lo scaldaletto in legno con attaccata la “cecia” piena di brace. E chi riusciva a dormire quella notte? Io stavo ad ascoltare tutti i rumori del mondo. Ogni bambino sperava e temeva di sentirli.
La mattina tutti insieme, con la domanda di rito “ma sarà passata?” e un vago tremore del corpo si apriva piano piano la porta della cucina. Che cosa stupefacente era accaduta; c’erano delle calze appese alla cappa e meraviglia delle meraviglie sulla sedia solo le bucce del mandarino, un mezzo biscotto mangiucchiato e il bicchiere di latte era vuoto. La prova inoppugnabile che la Befana era passata da lì.
La calza era piena di caramelle, di pezzi di panforte e di “cavallucci”, quei buoni biscotti al sapore di anice. C’era anche il carbone, quello che aspettavo di più, perché in verità era di zucchero.
Se arrivavano dei giocattoli, erano cose semplici ma bellissime per me. Mi ricordo una scatola di pastelli colorati di cera o il gioco dell’oca.
La mia memoria però si ferma su un anno particolare. La situazione della famiglia era difficilissima, mio babbo aveva deciso di tentare la fortuna emigrando in Canada. Mia mamma, da sola con tre figli allora – più tardi sarebbe arrivato anche il quarto- si barcamenava come poteva. I proprietari del negozio di alimentari erano per fortuna comprensivi e gentili, segnavano in un librettino la spesa e si pagava una volta al mese, quando il babbo mandava i dollari che era riuscito a guadagnare.
Quell’anno a Natale il Babbo telefonò, lo faceva una volta la settimana. la notizia non fu bella, aveva perso il lavoro e doveva trovarne un altro. Avrebbe potuto mandare solo pochi soldi. Arrivarono infatti poco più di venti dollari, mi ricordo ancora che sarebbero appena bastati a pagare la luce e l’affitto di casa.
La mamma non volle farsi vedere ma in camera da sola pianse molto. Fu un Natale molto misero e strano e la sera della vigilia della Befana la mamma ci riunì. A mala pena riuscì a dire che quell’anno bisognava avere pazienza ma la Befana le aveva detto che non sarebbe passata, che si scusava e che le dispiaceva molto. Le lacrime le stringevano la gola e noi la abbracciammo per consolarla. Volle però che si mettesse sulla sedia il solito mandarino, i biscotti e il bicchiere di latte. Andammo a letto tutti insieme e ci addormentammo abbracciati.
La mattina dopo aprimmo la porta di cucina, trovammo le bucce, i biscotti mangiati e il latte bevuto, non c’erano regali solo una calza con qualche caramella, ma bastò per darci la sicurezza che la Befana comunque non si era scordata di noi.
Alcune settimane dopo una canzone cantata da Wilma Goich sembrò essere stata scritta per mia mamma e mio babbo con le parole “Amore ritorna le colline sono in fiore…e già passato quasi un anno da quando sei partito…non importa se non sei diventato più importante, perché tu sei importante per me”. Mio babbo tornò, fu riassunto in Ferriera e continuò una vita non facile, ma la famiglia si riunì.
Seguirono gli studi, un lavoro importante, la mia carriera e una vita sicuramente migliore della mia gioventù.
Oggi, all’epoca di internet e di giochi fantascientifici, mia mamma ha novant’anni, mio babbo ci guarda dal cielo ed io ho i capelli bianchi. Guardo i bellissimi e struggenti tramonti di questi giorni di inizio anno e la mia anima si riempie di ricordi. Lo so, la sera della vigilia della Befana sarò con i miei tre figli che sono ormai grandi, ci saluteremo dopo aver cenato insieme e immancabilmente metteremo vicino al camino un bicchiere di latte, un’arancia e dei biscotti, perché sono certo nel profondo del cuore che la Befana passerà sempre ed è bene che ci trovi pronti.