“Hai portato il pallone” chiese Giosuè Bloch a Yosef Barasch, suo grande e speciale amico.
“Eccolo qua” rispose Yosef, mostrando quella specie di palla fatta di pezzi di copertoni e stracci. Ma il sorriso che prendeva tutta la sua faccia e che metteva in evidenza gli incisivi ben separati da un diastema che lo circondava di una simpatia insuperabile, era la certificazione che l’oggetto sarebbe stato perfetto per giocare.
Si guardarono con circospezione. Nei dintorni a quell’ora dopo pranzo non c’era nessuno. Allora via di corsa lungo le rive acciottolate del piccolo torrente che costeggiava le case del villaggio di Dbeer.
Correvano come il vento e ridevano, fra canneti alti, alti palmizi e olivi, là più in alto sulla collina. Quando videro il muro e le reti che fungevano da confine con il territorio arabo rallentarono e si fermarono dietro una roccia attorniata da fitti cespugli di rovi.
Giosuè guardò negli occhi Yosef, gli fece un cenno d’intesa. Poi unì il pollice e l’indice, se li mise in bocca piegando indietro la lingua. Soffiò forte un fischio inconfondibile riecheggiò per tutta la valle. Un piccolo stormo di uccelli, forse capinere, si alzò impaurito dai rovi mentre dei cani abbaiano in lontananza.
Giù ancora risate, soffocate questa volta dalle mani sulla bocca. Si accoccolano sulle ginocchia verso terra per nascondersi meglio. Quello era chiaramente un segnale convenuto, un messaggio destinato a qualcuno che ben lo conosceva. Quel qualcuno era lei. Amira Yassun. Amira abitava vicino, ma quel muro e quella rete la faceva sembrare lontanissima.
I due allargarono i cespugli per vedere meglio. Le due testoline si toccarono per osservare dal piccolo pertugio che si era aperto tra le foglie. Laggiù, dove la rete era immersa nei canneti, dove la poca acqua del rigagnolo formava una specie di pozza larga, c’era un foro segreto che allargava le maglie arrugginite. Da lì a poco, se il segnale fosse stato ascoltato e se tutto era andato bene, Amira sarebbe emersa.
Aspettarono attenti con il fiato sospeso forse un minuto che parve loro lunghissimo. Poi, nel punto conosciuto, le canne che ondeggiavano sotto il tiepido vento della valle, si mossero diversamente. Prima piano e poi più freneticamente. I capelli neri e lunghi di Amira uscirono per primi, poi, un pò strisciando sulla sabbia, si fece largo il corpo mingherlino e le gambe, che a est iniziarono a correre verso di loro.
Correva e già sorrideva Amira e come era veloce, “come il vento” pensarono Giosuè e Yosef. Finalmente i tre si riunirono e si abbracciarono ridendo, come le altre volte, tutti insieme. Anche questa volta ce l’avevano fatta.
Avevano quasi 10 anni, tutti e tre. Erano riusciti, ancora una volta, a sfuggire al controllo dei grandi. Un gioco anche quello, almeno sembrava a loro. Un gioco di cui non conoscevano ancora la realtà orrenda che nascondeva, perchè Amira era Palestinese, Giosuè era Ebreo e Yosef era Cristiano.
Ma a loro non interessavano le differenze, le capivano poco, anzi non le capivano affatto. Per loro non c’erano differenze. Quelle terre potevano essere di tutti. I loro occhi erano uguali, le loro mani erano uguali e uguali erano i tre cuori. Si erano conosciuti fin da piccoli, esplorando quei luoghi proibiti. Si erano dati appuntamento nel tempo e negli anni. Avevano condiviso i pochi giochi che avevano. Erano cresciuti insieme, anche se le famiglie avevano ordinato loro di non frequentarsi.
Poi c’era la loro grande passione, il calcio. Amira, in particolare, doveva combattere due volte per l’amore di quello sport. I genitori le avevano proibito, perché femmina, solo di pensare a un gioco riservato agli uomini, poi c’erano le altre amiche femmine, che la prendevano in giro per quel comportamento da maschiaccio.
Ma a loro non interessava, loro tenevano solo a quel legame d’affetto. L’amicizia era un insieme di sentimento, di emozioni che significano solo una cosa: condivisione. Ecco il dividere tra loro era partecipazione alla vita degli altri, era approvare le scelte che facevano in comune, era la gioia delle loro giornate vissute insieme.
Alla svelta andarono in uno spiazzo nascosto, sconosciuto a quasi tutti. Tra gli alberi più fitti, i rovi e rocce alte, si celava un quadrato di sabbia compatta. Era il loro campo da calcio. La porta l’avevano costruita già da tempo. Tre legni storti, di cui uno legato alla meglio agli altri con delle corde di fortuna e vecchi fili della corrente. I due pali si reggevano su dei mucchi di pietre accatastate. Ogni tanto un tiro più forte degli altri, colpiva un palo e buttava tutto giù, allora bisognava rifare tutto daccapo.
Uno stava in porta e due si contendevano la partita. Chi arrivava a tre gol vinceva. chi perdeva andava in porta. Così di seguito. Dieci, cento partite. Correvano, ore e ore, sudati, tra la polvere e proteste per i falli. Amira era forse la più brava di tutti e tre e vinceva spesso.
Quando la luce del primo tramonto faceva divenire rossastre le nuvole di polvere sollevate dalle corse e dai contrasti, si rendevano conto quanto tempo fosse passato.
“Accidenti” diceva allora Amira “ Mia madre mi starà cercando da un pò.” Preoccupati gli altri due ragazzi allora lo accompagnavano dove si erano incontrati, la salutavano e la vedevano scomparire dietro le canne.
Quel giorno, però, qualcosa accadde che interruppe molto prima i loro giochi. Fu un rumore sordo in lontananza, poi altri e altri ancora. Si guardarono preoccupati, salirono su una delle rocce che delimitavano il campo e videro il fumo. Pennacchi intensi alti, si alzavano neri e cupi dalla parte della città, per fortuna distante da loro qualche chilometro.
Decisero allora che sarebbe stato meglio rientrare presto verso casa. Si abbracciarono e si salutarono rimandando tutto a quando le cose fossero finite.
Ma purtroppo per loro la fine, se mai fosse arrivata, era lontana dal venire.
Quella che accadde dopo fu terrificante per tutti. Ma per gli occhi, il cuore e l’anima di un bambino, fu ancora più tremenda. I popoli di quelle terre, da sempre nemici, iniziarono una guerra atroce.
Le notizie che arrivarono ad Amira, Yosef e Giosuè furono orribili, spaventose. Seppur di distruzioni, di migliaia di bambini uccisi.
Il loro pensiero correva sempre agli amici più cari. Erano ancora vivi? Si sarebbero rivisti? La paura e la tristezza accompagnava le loro giornate.
Uno di quei tristi giorni venne decisa una tregua momentanea.
Fu Giosuè, approfittando di quella calma piena di tensione, a uscire per primo e, assicurando i genitori che sarebbe tornato da lì a poco, corse veloce verso la casa di Yosef. Per fortuna i combattimenti non avevano toccato quel quartiere. Trovò Yosef seduto sugli scalini della umile casa. I due si videro che erano ancora lontani. Iniziarono a correre e si abbracciarono, felici come non mai.
“Come stai” domandarono quasi simultaneamente.
Poi si raccontavano tante cose. Ad un tratto tacquero improvvisamente. Si guardarono e gli occhi parvero parlare ed esprimere quel pensiero comune che avevano. Amira dicevano gli occhi. Si alzarono e con un cenno d’intesa comune che conoscevano bene, come se partissero per una missione segreta, corsero dove tutti e due ben sapevano.
La roccia, il canneto, le reti e poi quel fischio forte verso il cielo. Niente, nulla accadde. Ma Giosuè non si arrese. Fischiò ancora più forte. Aspettarono ma nulla si mosse fra le canne. Sconsolati decisero di andarsene, ma proprio quando con il capo chino e già fatto un passo per il ritorno si voltarono per l’ultima volta, le canne ebbero un movimento strano. Poi un altro più forte. Riconobbero i capelli di Amira che uscì e corse verso di loro.
Che abbracci, che risa e anche lacrime. Erano lì, erano tutti insieme, ancora vivi. Non avevano nessun pallone ma andarono lo stesso nel loro luogo segreto. Si aprirono come sempre la strada fra i rovi e restarono senza parole. Nel mezzo di quello che era stato il loro campo da calcio, c’era una voragine nera, bruciata. Sassi e rocce gettati via, alberi rotti, la porta non c’era più. Tutto distrutto.
“Perchè?” urlò quasi Amira “Perchè tutto questo?”. Si mise a piangere disperatamente sedendosi sul tronco di un albero abbattuto. Yosef le mise un braccio sulle spalle per consolarla “eppure sarebbe bello che tutti fossero in pace” sussurrò. “Già” gli fece eco Giosuè “questa terra in fondo basterebbe per tutti, potrebbero essere amici come noi”.
“Ma noi” disse Amira asciugandosi con la manica le lacrime “cosa potremmo fare?” “Noi” continuò “siamo per esempio di religioni diverse, di popoli diversi, eppure ci vogliamo bene, perchè non fanno come noi?”
“Bisognerebbe che accadesse qualcosa” disse Yosef.
“Per esempio?” domandò Amira
“Non so, sarebbe bello pregare ognuno come gli pare, perché accada qualcosa di buono, di bello.”
“Via” disse in maniera un po ‘ canzonatoria Giosuè “desideriamo tutti insieme che i mitra e i fucili sparano caramelle”.
Amira cominciò a ridere immaginando la scena
“Come no” fece sorridendo Yosef “e i missili invece di esplodere facciano dei magnifici fuochi d’artificio” e giù a ridere tutti e tre.
Continuarono così nella fantasia, si sedettero tutti vicini, si dettero la mano e guardarono verso il cielo ridendo, immaginando tutta una guerra da ridere.
“Restano le bombe a mano, che gli facciamo fare?”
“Coriandoli quando esplodono”.
“E se succede un corpo a corpo e tirano fuori, non so, dei coltelli?
“Bene i coltelli diventano gelati, quelli con lo stecco di legno”
“Ma se vogliono darsi dei pugni?”
“Ogni pugno diviene un abbraccio”
E giù risate immaginando tutto.
“Ma i muri e le reti di recinzione?”
“Verranno cancellati per sempre da tutte le carte geografiche e da tutti gli accordi”.
“E gli aerei da guerra?”
“Diverranno degli aquiloni”
Yosef alla fine e disse “Mannaggia abbiamo dimenticato i carri armati, cosa gli facciamo fare”
Amira si alzò ed esclamò “Pernacchie, ogni colpo una pernacchia”
Questa cosa fu irresistibile e le risa arrivarono alle lacrime.
Ma il tempo era trascorso veloce e dovettero rincasare in fretta. Si abbracciarono, ridendo e piangendo, con la promessa di salvarsi e di pregare per la pace.
Rientrarono a casa, la tregua sarebbe finita l’indomani. La sera, tutta la bellissima giornata finalmente trascorsa fra di loro ripassò nel loro cuore puro e nelle loro menti. Ripensare ai desideri e alla preghiera che avrebbero dovuto fare ciascuno al proprio Dio per la Pace.
Tra coriandoli, fuochi d’artificio e gelati si addormentarono.
Li svegliò un ticchettio forte sulle finestre e sui muri esterni della casa. Impauriti corsero a ripararsi, ma videro i genitori proprio alle finestre, intatte, a guardare increduli cosa stesse accadendo.
Uscirono e scoprirono che l’intera strada era ricoperta di caramelle di tutti i colori. Alla menta, alla frutta, morbide e dure. C’erano anche dei soldati con i mitra in mano e più sparavano e più caramelle arrivavano.
Furono buttate allora delle bombe a mano, ma quando queste scoppiano uscivano fuori migliaia di coriandoli.
In alto apparvero i missili che divennero fuochi d’artificio bellissimi di mille colori. Intanto i bambini uscirono tutti per strada, correndo, ridendo e raccogliendo le caramelle.
I generali erano impazziti dalla rabbia, allora ordinarono il corpo a corpo. I soldati si trovarono gli uni di fronte agli altri. Tirarono fuori coltelli e si gettarono urlando verso i nemici. Ma i coltelli in verità erano succulenti gelati che sembravano offerti proprio ai nemici. Non solo ma quando gli avversari tentarono di fare a pugni, iniziarono invece a scambiarsi cordiali e affettuosi abbracci.
I comandanti non sapevano più che fare. Gli rimanevano i carro armati e allora ordinarono disperati un potente attacco. Non l’avessero mai fatto. A ogni ordine di fuoco la risposta furono delle sonore pernacchie. Brevi, lunghe, intermittenti. Incredibili pernacchie alla guerra.
I soldati a quella cosa non seppero resistere e iniziarono a ridere, smettendo ogni inutile velleità di combattimento mentre in alto nel cielo i caccia, divennero aquiloni colorati cavalcati da piloti increduli e sorpresi.
Amira, Giosuè e Yosef, si incontrarono felici, senza che ci fosse più necessità di passare di nascosto nessuna rete o muro cancellati per sempre dalla terra. Tennero segreto quel loro desiderio esaudito e continuarono a giocare al calcio formando con gli altri bambini delle bellissime squadre.
I politici non seppero più cosa fare. La guerra non aveva più senso anche perché non esistevano più confini da difendere e, soprattutto, per non prendere più sonore pernacchie per le loro decisioni.